Martin Lings sulla lingua araba

D’altra parte il parlare è sempre stato considerato una delle glorie dell’umanità. Nel Giudaismo, e anche nell’Islam, troviamo la teoria per cui fu grazie alla rivelazione divina che venne insegnata ad Adamo la vera lingua, quella in cui il suono corrispondeva esattamente al senso. Questa concezione, secondo la quale il parlare primordiale dell’uomo fu tra tutte le lingue quella più perfettamente espressiva e onomatopeica, è senza dubbio oltre la portata di qualsiasi verifica filologica. Tuttavia la filologia ci può dare una chiara idea delle tendenze linguistiche comuni al genere umano, e nel farlo non c’insegna nulla che contraddica l’ipotesi tradizionale. Al contrario, ogni lingua a noi nota è una forma degradata di una qualche lingua più antica, e più torniamo indietro nel tempo, più il linguaggio si fa potentemente solenne; diventa anche più complesso, sicché le più antiche lingue conosciute, quelle che sono molte più antiche della storia stessa, sono le più sottili ed elaborate nella loro struttura, e richiedono una grande attenzione e presenza di spirito da parte di colui che le parla, più di quanto non lo esigano quelle posteriori. Il tempo tende a ridurre le singole parole nella forma e nella sonorità e a semplificare sempre più la grammatica e la sintassi.

È anche vero che, se il tempo riduce la qualità d’una lingua, questa avrà sempre, da un punto di vista quantitativo, il vocabolario necessario ai fabbisogni della gente, per esempio, a un sensibile aumento degli oggetti materiali corrisponderà un incremento nel numero dei nomi. E tuttavia, mentre nelle lingue moderne i neologismi devono essere creati artificialmente, aggiungendoli dall’esterno, nel caso delle lingue più antiche si può dire che possiedono, in aggiunta alle parole in uso, migliaia di parole non usate che, se necessario, possono essere prodotte organicamente, in virtù della quasi illimitata capacità di formazione delle parole inerente alla struttura della lingua stessa. In rapporto a ciò sono le lingue moderne che potrebbero essere chiamate ‘morte’ o ‘moribonde’, mentre quelle antiche, pur essendo ‘morte’, nel senso che non sono più in uso, restano organismi intensamente vitali.

Ciò non significa che le lingue antiche – e coloro che le parlavano – mancassero della virtù della semplicità. La vera semplicità, lungi dall’essere incompatibile con la complessità, spesso richiede una certa complessità per realizzarsi pienamente. Bisogna distinguere tra complessità, che implica un sistema o un ordine definito, e complicazione, che implica disordine e persino confusione. Un’analoga distinzione va fatta tra semplicità e semplificazione.

L’uomo davvero semplice possiede una fortissima unità, è completo e intero, non diviso interiormente. Per mantenere questa compatta integrazione, l’anima deve riaggiustarsi completamente a ogni nuovo insieme di circostanze, il che significa una grande flessibilità nei diversi elementi della psiche: ciascuno deve essere predisposto a compenetrarsi perfettamente con gli altri, a prescindere dallo stato d’animo. Questa stretta sintesi, su cui si basa la virtù della semplicità, è una complessità distinta dalla complicazione e ha la sua controparte nella complessità delle lingue antiche, a cui si applica di regola il termine di ‘sintetiche’, per distinguerle dalle moderne dette ‘analitiche’. È solo tramite un elaborato sistema di regole grammaticali che le diverse parti del discorso, simili ai diversi elementi dell’anima, possono essere declinate per integrarsi profondamente, dando a ciascuna frase qualcosa dell’unità concentrata propria della singola parola. La semplicità del linguaggio sintetico è comparabile in effetti a quella d’una grande opera d’arte – semplicità non necessariamente dei mezzi, ma dell’effetto totale; senza dubbio, al massimo grado doveva essere la semplicità della lingua primordiale e, potremmo aggiungere, dell’uomo che la parlava. Questa è la conclusione a cui giungono tutte le prove fornite dalla linguistica, e poiché il linguaggio ha un’importanza tanto fondamentale nella vita dell’uomo, essendo così intimamente legato alla sua anima, di cui è espressione immediata, tale testimonianza assume anche una fondamentale portata psicologica.

Un’eredità del passato, che è giunta sino a noi con un’integrità tutta speciale, e che pertanto è ben qualificata a servire da pietra di paragone, è la lingua araba. Ha avuto uno strano destino. Quando gli Arabi apparvero per la prima volta nella storia erano un popolo di poeti, con un’ampia e svariata gamma di forme metriche, la cui sola prosa era formata praticamente dal linguaggio quotidiano. Possedevano una rudimentale forma di scrittura, che solo pochi sapevano usare, e comunque preferivano trasmettere i loro poemi oralmente, restando con tutta probabilità fino all’avvento dell’Islam i più illetterati tra tutti i popoli semitici. Senza dubbio ciò spiega perché la loro lingua si fosse così ben conservata. Anche se la linguistica ha provato che si tratta del decadimento di una lingua più antica, ancor più complessa e sonorizzante, l’arabo era nel 600 d.C. più arcaico nella forma, e pertanto più vicino ‘alla lingua di Sem’, di quanto non lo fosse l’ebraico parlato da Mosè 2000 anni prima. Fu l’Islam, e in modo particolare il bisogno di registrare ogni sillaba del Corano con assoluta precisione, a obbligare gli Arabi del settimo secolo a scrivere; ma nel contempo il Corano impose il suo linguaggio arcaico come modello, e poiché doveva essere imparato a memoria e recitato il più possibile, l’effetto deleterio della scrittura fu controbilanciato dalla continua presenza dell’arabo coranico nella lingua degli uomini. Si sviluppò rapidamente una scienza per registrare e conservare l’esatta pronuncia, e la corruzione linguistica fu anche controllata dagli sforzi sostenuti dai musulmani, attraverso i secoli, per modellare il loro parlare su quello del loro Profeta. Come risultato la sua lingua è ancor viva oggi. Inevitabilmente si sono formati dialetti nel corso del tempo, attraverso la soppressione di una sillaba o l’unificazione di due suoni distinti in uno, o altre semplificazioni, e questi dialetti, che variano da un paese arabo all’altro, sono usati normalmente nella conversazione. Ma alla minima occasione formale si ritorna subito alla maestà e alla sonorità integra dell’arabo classico, a cui si fa anche spontaneamente riferimento nel corso della conversazione, quando qualcuno ha qualcosa di veramente importante da dire. D’altro canto, quei pochi che rifiutano per principio di parlare il linguaggio colloquiale, si ritrovano presi nel dilemma se astenersi completamente dalla ‘conversazione ordinaria’, o correre il rischio di produrre un effetto incongruente, come se fossero monelli di strada mascherati con vesti regali. Le chiacchiere inutili, ossia la rapida espressione di pensieri non soppesati, dovevano essere probabilmente un fatto sconosciuto nel passato, poiché era qualcosa a cui le lingue antiche non si prestavano, e se gli uomini pensavano in modo meno sciolto e si davano più da fare per strutturare l’espressione dei loro pensieri, di certo se ne davano ancor più per articolarli. Il sanscrito, con la sua meravigliosa gamma e varietà di suoni consonantici, racconta la medesima storia dell’arabo e ci induce alla conclusione che, in passato, gli organi preposti all’articolazione e all’udito erano assai più raffinati e sensibili di quelli odierni. Questa ipotesi è ampiamente confermata anche da uno studio della musica antica con tutta la sua sottigliezza ritmica e melodica.

da: M. Lings, Antiche fedi e moderne superstizioni, (trad. it.) Il Leone Verde, Torino 2002, pp. 20-24 (ed. or. 1965). Martin Lings è anche autore della più seria ed avvincente biografia del Profeta dell’Islam pubblicata in una lingua europea: Il Profeta Muhammad. La sua vita secondo le fonti più antiche.

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