L’Arabo è una lingua “difficile”? (parte 1)

La classica frase fatta che uno studente alle prime armi, o addirittura prima di cominciare, si sente rivolgere è di solito la seguente: “L’Arabo è difficile!”. Al-lughat al-‘arabiyya sa‘ba!”. Ma è davvero così?

Certo, nemmeno si può illudere la gente e proclamare, come dei piazzisti, “Impara l’Arabo in 20 giorni!”. Ovviamente seguendo il “metodo” di volta in volta proposto, persino con l’aiuto della cosiddetta “intelligenza artificiale” (cosa su cui torneremo in un altro articolo)… Questo non è onesto, e tuttavia chiunque abbia un minimo di dimestichezza con le lingue straniere non può credere seriamente ad una boutade del genere.

Ma non è nemmeno vero il suo esatto opposto, e cioè che l’Arabo è difficile tout court. Una sorta di Everest linguistico. Talmente insormontabile che chiunque vi si approcci stia compiendo un gesto folle senza ben considerare il rafano in cui sta per finire.

La verità in questo caso sta proprio nel mezzo. Ovvero, l’Arabo presenta alcuni aspetti impegnativi, ma col procedere dello studio lo studente si rende conto – se guidato da un docente esperto – che questa lingua è caratterizzata anche da notevoli aspetti facili. Più facili rispetto allo studio ex novo dell’Italiano da parte di uno che parte da zero!

Partiamo con questi ultimi, proponendo alcuni esempi tra i molti.

Il sistema verbale, di base, è facile. Per il “passato” ed il “presente” si tratta d’imparare una sorta di ‘filastrocca’, le varie persone del verbo formandosi sempre allo stesso modo per tutti i verbi. Adesso non stiamo ad entrare i troppi particolari, ma basti dire che se kàtaba si traduce con “studiò/ha studiato” (m.), il suo f. si ottiene aggiungendo sempre semplicemente una tâ’ (t), pertanto diventa kàtabat; e così tutti i verbi, fino a quelli più lunghi (es. istàqbala: “accolse/ha accolto” (m.); istàqbalat: “accolse/ha accolto” (f.)…). Ma questo automatismo si opera per tutte le persone: daràstu significa “studiai/ho studiato”, intazhàrtu lo si traduce con “aspettai/ho aspettato”, e così via, fino a istakhadàmtu (utilizzai/ho utilizzato). Come chiunque può constatare, il finale di ogni persona è sempre allo stesso modo. E tra l’altro esiste un solo “passato”.

Idem dicasi per il “presente”, che è basato su dei prefissi che si antepongono alla famosa radice triconsonantica della stragrande maggioranza dei verbi arabi. Per esempio: yàjlisu (“si siede”), yàshrabu (“beve”), yàkhruju (“esce”). Questo al maschile. Al femminile: tàjlisu (“si siede”), tàshrabu (“beve”), tàkhruju (“esce”). Tutto qui. Un cambio della lettera/suono del prefisso, e così per tutti i verbi: yatakàllamu (“parla”, m.), tatakàllamu (“parla”, f.). Le altre persone avranno altri prefissi, ma saranno invariabilmente gli stessi, e così il “presente” è imparato.

L’unica eccezione al riguardo del verbo arabo è costituita non dai verbi “più lunghi”, ma da quelli che contengono nella radice (wâw e yâ’). Eppure anche in questo caso i prefissi per il “presente” sono sempre gi stessi suaccenati, e così dicasi per il passaggio dal maschile al femminile del “passato”: yaqûlu (“dice”, m.), taqûlu (“dice”, f.); qâla (“disse/ha detto”, m.), qâlat (“disse/ha detto”, f.).

Se passiamo poi ai pronomi personali, il titolo dell’argomento potrebbe essere: “Buone notizie!”, “Akbâr jàyyida!”. Ne esistono solo due, per ciascuna persona: uno (isolato) per quando è soggetto; l’altro (suffisso) per tutte le altre situazioni. Per cui chi studia l’Arabo si ritrova il non indifferente vantaggio di non dover impazzire nell’apprendere gli equivalenti dei nostri “gli/lo”, “ve/vi”, “ce/ci” eccetera. Con un solo pronome personale da usarsi quando non è soggetto si fa tutto, compreso il possessivo. Esempio: kitâbu-hu (“il suo libro”, cioè “il libro di lui”), shùftu-hu (“l’ho visto”), qùltu la-hu (“gli ho detto”).

Ma non finisce qui, perché in Arabo non vi sono le preposizioni articolate (come in Inglese) e… udite udite, sebbene nel testo scritto vocalizzato di una certa rilevanza (soprattutto dal punto di vista religioso) compaiano le vocali finali dei nomi (variabili se quello è “soggetto”, “complemento oggetto” o “altro complemento”), nel parlato – benché schiere di accademici abbiano fatto sputare sangue ai loro studenti – esse non vanno pronunciate, in quanto l’effetto sarebbe quello di un’eccessiva pedanteria, come se stessimo ordinando un caffè atteggiandoci a colui che declama il sermone del venerdì. E persino nella lettura, se trattasi di testo che non richiede alcuna solennità (come può essere quello del Corano), queste vocali finali variabili del nome possono essere tranquillamente omesse. E non ne va della comprensione, da parte dell’interlocutore o dell’ascoltatore, di ciò di che andiamo dicendo. Anzi, questa omissione, così come quelle di altri “finali” di parole arabe è caldamente consigliata per essere più facilmente compresi!

Perciò, occhio a chi dipinge l’Arabo come “difficile” quasi per mostrare agli altri di possedere chissà quale “arte” o “segreto”. L’Arabo va approcciato con giusto spirito, consapevoli che è una lingua, non un’impresa impossibile!

Nella seconda parte, invece, tratteremo degli aspetti “impegnativi” nell’apprendimento dell’Arabo, coi quali, tuttavia, ciascun studente si misurerà in base alla propria predisposizione, al proprio talento, al tempo che può dedicare allo studio, senza dimenticare l’entusiasmo, infuso anche dall’insegnante, capace di far smuovere le proverbiali montagne. Insomma, non è detto che quel che andremo ad illustrare (che si riduce a due aspetti) sia per forza eccessivamente “impegnativo”!

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